mercoledì 11 gennaio 2017

Lesbicata fatale per l'ispettrice

Mi chiamo Emilia Rossi. Premetto che non ci sono prove concrete del racconto che stò per fare. L'episodio risale a 10 anni fa quando ero dirigente di un'importante azienda. In quel periodo mio marito mi cornificava ogni giorno con giovani ragazzine. Devastata dagli adulteri presi la decisione d'impulso di ucciderlo. Non ragionai molto, ero talmente rabbiosa che gli fracassai la schiena con un'ascia da giardino. La polizia iniziò ad indagare. In realtà corruppi la segretaria e altri impiegati di allora con forti somme di denaro per testimoniare che, al momento dell'omocidio, mi trovavo in ufficio. A condurre le indagini fu incaricata la bella e giovane rampante ispettrice Serena Vivaldi. Serena era un'impulsiva, agiva d'istinto e aveva capito che ero stata io l'autrice del crimine, ma non poteva dimostrarlo. Tuttavia col tempo mi avrebbe creato dei problemi, era una piantagrane in fin dei conti. La mia mente malata architettò un modo piuttosto piacevole per sbarazzarmi di lei definitivamente. Presi informazioni sulla poliziotta, venne fuori che era una sbirra valida ma con un tallone di achille, il sesso. Alle volte si era trovata coinvolta in rapporti sessuali con delinquenti. Già da alcune conversazioni precedenti mi ero accorta della sua indole da puttana perlomeno pari alla mia e così, un giorno che venne a farmi delle domande, mi feci trovare con un bel paio di tacchi e le autoreggenti, più zoccola del solito per "stimolare l'appetito" e indurla così in tentazione. Le offrì innanzitutto il caffè, quello che non vorreste mai bere, arricchito con un potente veleno a rilascio semirapido, mortale dopo circa mezz'ora. Mi disse che il caffè era troppo amaro nonostante lo zucchero. Le feci sciacquare bene la bocca in modo da poterla baciare senza problemi. Non ci volle molto per finire lingua a lingua. Le leccai la figa, le tette. Lei godeva, nel contempo era curiosa di conoscere la verità. Ormai che mi importava più di spifferare tutto? Ammisi di essere stata io l'assassina, tanto non lo avrebbe potuto raccontare a nessuno. La pregai di continuare il nostro siparietto prima dell'arresto e lei, ingenua, ci stette. Le slinguazzai perbene la fica in tutte le posizioni. Poi lei ricambiò. Usammo anche i dildo per venire meglio, prima godetti io e poi lei. Soltanto alla fine, quando ormai era troppo tardi, le rivelai che il caffè era avvelenato e che non avrebbe avuto scampo. Comprese solo allora quanto fosse stata stupida a fidarsi. Dopo il piacere, nei suoi begli occhi lessi lo sgomento, la disperazione di chi se ne stà per andare. Rabbiosamente tentò invano di strangolarmi ma si accasciò esanime sul mio corpo. Dopo che esalò l'ultimo respiro le iniettai una soluzione pulente per eliminare le tracce del veleno. Feci sparire anche tutte le altre tracce possibili e dispersi il suo cadavere in un bosco lontano rompendole a sangue la vagina con un ramo per far intendere agli inquirenti che si era trattato di un macabro stupro compiuto chissà da chi, qualche suo spasimante, forse. In seguito i suoi colleghi mi tempestarono di domande ma io risposi di non averla più vista e così, molto disonestamente, la feci franca.             
















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